Le grandi battaglie hanno sempre esercitato un fascino tutto particolare sugli appassionati di storia, assumendo quasi un ruolo simbolico nel cosiddetto immaginario collettivo, anche se spesso con valenze diverse. Austerlitz è diventata l’archetipo delle vittorie napoleoniche, per imprevedibilità delle mosse, velocità di esecuzione, globalità del risultato. Waterloo, al contrario, è simbolo dell’ ultimo atto di una fase storica, la fine di una parabola, con una caratteristica specifica: l’imponderabilità e l’incertezza della conclusione. Nel grandioso scontro, nulla è scontato e tutto è possibile fino quasi all’ultimo; il vincitore può diventare il vinto della giornata e viceversa. Napoleone non esce ridimensionato dallo scontro, mentre Wellington, pur vincendo, non entra per questo nella leggenda. Stalingrado rappresenta la disfatta annunciata di un’armata lasciata alla mercé di forze preponderanti, in condizioni ambientali impossibili, per l’ostinazione di Hitler, che in nome della sua visione totalizzante sceglie l’annientamento piuttosto che un cedimento parziale. Non c’è gloria in questa scelta, solo vocazione suicida come unica alternativa alla vittoria sempre e comunque. Ci sono poi vittorie destinate a diventare simboli di gloria eterna per la disparità delle forze in campo e l’eroismo degli sconfitti: basti pensare alle Termopoli o a El Alamein. Sono casi ricorrenti nella storia e nell’epica giapponese, che mostra maggiore ammirazione per una sconfitta eroica piuttosto che per una facile vittoria. E’ la nobiltà della sconfitta, come ha scritto uno studioso della tradizione giapponese, Ivan Morris. Questa casistica potrebbe continuare ancora a lungo da Hastings a Sédan, da Caporetto a Isso, da Filippi a Teutoburgo, rivelando di volta in volta caratteristiche e conseguenze storiche particolari. Questa peculiarità ricorre anche in una delle sconfitte più disastrose della gloriosa storia militare di Roma, la battaglia di Canne, che si combatté il 2 agosto del 216 a.C. nei pressi del fiume Ofanto, tra le attuali Barletta e Canosa di Puglia. Dove otto legioni romane, il meglio delle forze armate della Repubblica, guidate da Lucio Emilio Paolo e Gaio Terenzio Varrone, vennero annientate dall’esercito cartaginese, forte di meno della metà di combattenti, tra fanteria e cavalleria, sotto la guida di uno dei più grandi geni militari dell’antichità: Annibale. Un nome che è sempre suonato simbolo di pericolo mortale alle orecchie del popolo romano; l’unico uomo che abbia messo in discussione la sopravvivenza di Roma, dopo che essa aveva ormai raggiunto l’egemonia nella penisola italica. Alla battaglia di Canne, alla dinamica delle sue diverse fasi, ma anche alle sue premesse storiche e materiali, ai suoi protagonisti, e alle sue conseguenze è dedicato il recentissimo lavoro di Massimo Bocchiola e Marco Sartori, che qualche anno addietro si erano già cimentati con la ricostruzione del disastro di Teutoburgo, dove, nel 9 d.C., Varo aveva perso le sue legioni, disperse e ostacolate nei movimenti dai boschi germanici, durante una imboscata tesa con l’inganno dal principe dei Cherusci, Arminio, infido alleato pronto a tradire. Teutoburgo e Canne sono le uniche due «tempeste perfette», come le definiscono gli autori, ovvero le sole battaglie dove le circostanze congiurano perché si realizzi una distruzione totale delle milizie romane. Con una differenza importante. A Teutoburgo, nel fitto di una foresta, con le truppe in marcia durante un violento temporale, le condizioni avverse ai romani sono evidenti e devastanti. A Canne, al contrario, tutto sembra a favore delle armi romane: forze preponderanti e sperimentate, generali valorosi, terreno aperto, dove la fanteria può dispiegare liberamente le sue manovre. Eppure, gli avvenimenti presero un’altra piega. Perché? La ricostruzione è nota. Sgominata la cavalleria romana, schierata sulle due ali dello schieramento, le truppe di Annibale, disposte su una linea più lunga e meno profonda, circondano progressivamente le legioni, chiudendole in un abbraccio mortale, nel quale i soldati di Roma non possono combattere, perché impediti tra di loro, ma solo attendere la morte che si avvicina dall’esterno. Alla fine il bilancio è tragico: da 30 a 70 mila caduti, secondo le diverse fonti (probabilmente circa 50 mila); alcune migliaia di prigionieri, morto Lucio Emilio Paolo. Canne sembrò l’inizio della fine, mentre rappresentò invece l’inizio della riscossa romana, a cominciare da alcune scelte simboliche del Senato: festeggiamenti al console sopravvissuto; invio di alcune legioni in altri teatri di guerra, dove si annunciavano rivolte contro l’egemonia romana; leva in massa per formare nuove armate, ma senza cedimenti al panico. Canne dimostrò la grandezza di Roma e la sua vocazione a una egemonia mediterranea e sul mondo allora conosciuto. Tutto questo si trova nel libro. Ma soprattutto si trova la descrizione della dinamica della battaglia nelle sue varie fasi; le armi usate; la composizione delle unità; la psicologia dei combattenti; la loro fisicità. Tutto quello che può cercare chi ama sapere quello che la grande Storia è stata e che non può essere più visto dal vivo.
di Aldo Giovanni Ricci – (da “Storia In Rete” n. 39 di gennaio 2009)