Intervista ad uno degli storici di punta dell’ “Antirisorgimento”: il napoletano Gigi Di Fiore – giornalista del quotidiano napoletano «Il Mattino» e storico – è, tra le altre cose, autore di una «Controstoria dell’Unità d’Italia». Di Fiore con i suoi studi e i modi pacati con cui si esprime nelle interviste rappresenta a pieno titolo quella parte di studiosi che – seppur fuori dall’accademia – ha deciso di rimettere in discussione i miti del Risorgimento. Per spaccare l’Italia? Nossignore: per raddrizzare qualche torto storiografico.
Dopo centocinquant’anni di unità è il caso d’andare avanti tutti insieme o di chiudere baracca e burattini?
«L’unità d’Italia non è messa in discussione, ma occorre ripulirla da idolatrie e falsi miti, senza i paraocchi. Il problema è che a volte il dibattito viene portato avanti con temi e toni sbagliati o discutibili, e con scarsa attenzione al documento, che invece è la stella polare d’ogni storico».
Non trova che molti neoborbonici idealizzino la dinastia napolitana, dimenticando che per il secolo e mezzo scarso che regnò fu sotto tutela di Spagna, Inghilterra ed Austria. In una rivalutazione più equilibrata della Casa di Borbone-Napoli non occorre tener conto anche di questo?
«In parte è vero, in parte no. Il rapporto con la Spagna e l’Austria era dinastico, e comunque l’Austria aveva ingerenze e influenze in pressoché tutti gli Stati italiani. Con l’Inghilterra la cosiddetta “questione degli zolfi” fu risolta chiudendo i legami commerciali con i britannici a favore di un contratto più conveniente coi francesi. E il problema divenne questione di rapporti di forza: Ferdinando II pagò la sua volontà di pretendere la non ingerenza inglese all’interno del regno, e la pagò cara. Non a caso poi Marsala fu scelta dai garibaldini per lo sbarco dei Mille: nella città siciliana infatti esisteva una fortissima colonia inglese che si occupava di vinicoltura e commercio, e anzi si può dire che l’intero porto di Marsala fu costruito con capitali britannici. La stessa presenza di navi inglesi nel porto a copertura dei due vapori garibaldini non fu casuale. Ma l’ingerenza inglese si era semplicemente spostata da Napoli a Torino. Quando Ferdinando II rescisse il contratto degli zolfi, Londra puntò sul Piemonte: la guerra di Crimea fu estremamente onerosa per i sabaudi, che dovettero contrarre debiti con le banche inglesi. I debiti – circa 500 milioni di lire – furono poi “spalmati” su tutte le banche della penisola dopo l’unificazione, ma comunque l’Italia unita continuò a pagarne le rate fino ai primi anni del Novecento. Anche questa è ingerenza».
A Garibaldi, Vittorio Emanuele e Cavour concede qualcosa? hanno sbagliato tutto oppure qualcosa di giusto gli è capitato di farlo?
«Erano tutte persone di grande intelligenza ed avevano compreso bene come stava girando il mondo. Soprattutto Cavour, che tra tutti fu l’interprete di quel cambiamento più dotato di spregiudicatezza e cinismo».
E invece Mazzini e Pisacane, cioè il “Risorgimento perdente”, come li valuta?
«Pisacane fu un vero rivoluzionario, considerabile addirittura come vicino a Proudhon. Ma la sua figura fu schiacciata poi dal mito garibaldino. Pisacane fu uno stratega e un organizzatore, ma era talmente idealista che in seguito Garibaldi – più abile nel muoversi con le spalle ben coperte – ottenne un successo maggiore su tutta la linea. L’impresa di Sapri finì male perché – a differenza di quella dei Mille – Pisacane non aveva preso accordi coi baroni. Garibaldi invece sbarcò con la sicurezza d’avere molti aristocratici con le loro bande di “bravi” pronti ad aiutarlo. Per quanto riguarda Mazzini, certo, egli è considerato uno dei “grandi vinti”, come ha scritto Spadolini. E tuttavia fu proprio lui coi suoi scritti a creare il mito garibaldino che l’avrebbe soppiantato, pompando molto le imprese sudamericane e fu fondamentale per il proselitismo a favore delle Camicie Rosse. Mazzini aveva capito che per fare una nazione occorre un mito, e contribuì a costruirlo in Garibaldi. Un mito tanto forte che perfino dopo morto non fu abbandonato: il funerale di Garibaldi divenne una questione di Stato e fu uno dei primi mattoni di quella religione laica che si voleva costruire per cementare il nuovo regno».
Ma di tutti i giovani italiani – migliaia e migliaia di patrioti di ogni estrazione sociale – che durante tutto il Risorgimento si sacrificarono spontaneamente per l’ideale di un’Italia unita e indipendente, cosa pensa?
«Migliaia? Per quanto riguarda il Mezzogiorno ci sono studi molto ben fatti: il Regno delle Due Sicilie espresse solo una quarantina di volontari per le imprese unitarie. L’adesione delle masse – anche quelle più politicamente consapevoli – al sud fu talmente problematica che durante l’invasione sabauda molti ufficiali e politici piemontesi iniziarono seriamente a chiedersi se avessero fatto la scelta giusta, perfino all’interno dello stesso governo Cavour. La scarsa adesione del sud si è riflettuta poi nella redistribuzione degli “utili” del processo unitario. Chi l’aveva sostenuto ne riscosse i dividendi. Il sud poco aveva appoggiato e poco ottenne: furono chiusi i cantieri di Castellammare a favore di quelli di Genova, per esempio, mentre i baroni – che avevano appoggiato Garibaldi in Sicilia – ottennero la rinuncia ad ogni riforma agraria a loro danno. Vae victis, insomma».
Ai fatti però al Regno delle Due Sicilie era stato proposto a Zurigo – durante le trattative di pace della Seconda guerra d’Indipendenza – di entrare a far parte di una confederazione italiana con la presidenza del Papa. Il rifiuto di Francesco II – da pochissimo sul trono – innescò la catena d’eventi che portò l’Unità alla sua conclusione con mezzi sanguinosi.
«Sicuramente Francesco II si trovava isolato: c’era l’opposizione interna di democratici e repubblicani e l’ingerenza diffusa dell’Austria, che a sud del Po aveva interessi politici ovunque. Ma occorre vedere pure l’altro corno del problema: la Seconda guerra d’Indipendenza era interpretata come un problema fra piemontesi e austriaci, coi primi aiutati in maniera determinante dai francesi. Francesco II invece puntava al mantenimento di una “patria napoletana”, che era ormai indipendente da 135 anni, e che egli considerava una grande nazione che non doveva confluire in un altro Stato. A tutto questo s’aggiunge il fatto che l’unità d’Italia era caldeggiata dalle borghesie che si erano schierate contro il trono, e quindi diveniva anche un problema di spazi politici, concessi i quali significava rinunciare ai propri».
L’emigrazione meridionale non dovrebbe essere anche spiegata coll’arretratezza strutturale ereditata dal governo borbonico e con fattori demografici piuttosto che dall’invasione piemontese? Questo fenomeno non si sarebbe verificato ugualmente anche se sul trono di Napoli fosse rimasto il Borbone?
«L’unità d’Italia è comunque una concausa di un processo di livello europeo: è chiaro che con quel processo unitario molta forza lavoro del Mezzogiorno si trovò a non avere più sfogo nel proprio paese e dovette necessariamente puntare all’emigrazione. Il Regno delle Due Sicilie aveva un sistema economico protezionista, con anche una serie di tutele del lavoro di stampo tardo-illuminista (perfino un sistema pensionistico) che però non si adattavano al nuovo sistema economico europeo di tipo liberista all’inglese. L’avvento dello Stato unitario oltre alle rilocalizzazioni delle realtà produttive a cui abbiamo accennato prima, pose anche fuori dal mercato molte imprese che invece potevano prosperare col protezionismo borbonico, condannando gli impiegati del settore all’emigrazione. A quel punto si spiega il famoso aforisma di Nitti: “o emigranti o briganti”. Comunque non è un caso che le mie ricerche abbiano riscosso interesse anche da parte dei veneti: dal Veneto com’è noto è venuta una grandissima parte dell’emigrazione italiana nel mondo. E prima di diventare la regione ricca che è oggi, il Veneto ha subito come il Mezzogiorno il trauma del cambio di regime dal protezionismo a liberismo, con conseguenze drammatiche sulla popolazione, costretta a migrare».
Se l’Italia deve restare unita, allora ha bisogno di una memoria condivisa. In alcuni casi invece a sud si è iniziata una “bonifica toponomastica” per cancellare le “piazza Garibaldi” o “corso Vittorio Emanuele II”. Non pensa che invece la strada da percorrere sia proprio quella di rendere al passato borbonico il giusto onore nella toponomastica, senza cancellare la storia unitaria?
«Questo è proprio l’obbiettivo principale. La storia di un paese è un continuum che non può essere spezzato cancellandone una parte. Non esistono compartimenti stagni nella storia, e non è più accettabile la criminalizzazione e la damnatio memoriae del regno borbonico. Così come – al contrario – non è stato criminalizzato il Vicereame spagnolo: tanto che a Napoli abbiamo ancora una delle principali strade intitolate a Toledo, vicerè spagnolo. E abbiamo mantenuto una strada dedicata a Cristina di Savoia – moglie di Ferdinando II – mentre nessuna strada è stata dedicata ad una regina come Maria Sofia, l’ultima sovrana delle Due Sicilie, che pure è stata un grandissimo personaggio storico. E tuttavia da alcune parti questo processo è stato avviato: nel casertano sono state intitolate strade e scuole a Ferdinando II e Francesco II. In Trentino, addirittura, una strada è stata dedicata all’ultimo sovrano di Borbone, che è morto ad Arco, in provincia di Trento. Esagerazioni, come certe bonifiche toponomastiche, invece non fanno bene alla memoria condivisa. A Napoli c’è corso Vittorio Emanuele II che prima era corso Maria Teresa di Borbone. Non dovremmo togliere il nome attuale, secondo me, ma dedicare una nuova strada alla sovrana, lasciando inalterata quella vecchia, che oramai fa parte della nostra storia».
(intervista di Emanuele Mastrangelo – da Storia In Rete n. 57/58 – luglio-agosto 2010)