I Novecento Giorni. Così viene spesso chiamato l’assedio di Leningrado. Quasi tre anni durante i quali attorno alla città fondata da Pietro il Grande tedeschi e finlandesi strinsero un cerchio di ferro e fuoco, nella speranza di farla cadere per fame e conquistarla evitando una lotta casa per casa. L’assedio costò distruzioni e perdite umane incalcolabili. Opere d’arte di inestimabile valore furono perdute per sempre (fra cui la celeberrima «camera d’ambra», ricostruita in copia fedele nel dopoguerra) e centinaia di migliaia di civili perirono di denutrizione durante i terribili mesi di assedio. Nel 1943, quando questo si era oramai allentato e il flusso di rifornimenti dall’URSS era divenuto più sostanzioso, il giornalista britannico Alexander Werth fu ammesso nella città-fortezza, dove era nato 42 anni prima, quando ancora si chiamava San Pietroburgo. Werth è un reporter di guerra autorizzato dalle autorità sovietiche e britanniche a raccontare il conflitto in un libro di grande respiro. Tornato nella sua città natale si rende conto che l’assedio di Leningrado non può essere un capitolo di un saggio, ma deve diventare un libro a sé stante. Werth inizia così a raccogliere testimonianze dei cittadini e dei soldati che da due anni tengono in scacco le armate dell’Asse. Racconta soprattutto di operai combattenti ed episodi legati alla vita scolastica dei giovani leningradesi sotto assedio, fotografando la volontà di mantenere una vita normale nonostante i bombardamenti e la fame nera che ha mietuto forse un milione e mezzo di vittime. L’intero reportage è scritto con l’ottica e lo stile della propaganda britannica e sovietica dell’epoca, alla quale Werth aggiunge del suo, per il suo legame affettivo con la città dove è vissuto fino all’età di 16 anni. D’altronde la crudeltà dell’assedio tedesco non poteva certo disporre a sentimenti di comprensione o cavalleria verso il nemico che stava per essere definitivamente sconfitto. Il tono, a tratti livoroso, usato da Werth ci dice quindi molto, al di là delle intenzioni propagandistiche dell’autore, sull’atteggiamento e il clima generato dalla guerra e la volontà di vendetta sull’aggressore. Prima che Achille e Priamo abbiano potuto piangere insieme sul cadavere di Ettore, è stato necessario che l’eroe vittorioso trionfasse infierendo con ferocia sullo sconfitto.
(di Emanuele Mastrangelo – da «Storia In Rete» n. 101/102 di marzo-aprile 2014)