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L’Italia che gettò cuore (e satellite) oltre l’ostacolo

C’era un tempo in cui gli italiani sapevano sognare. La guerra è finita da una decina d’anni. Il mondo sta ancora contando cicatrici e macerie.Hiroshima e Nagasaki sono come Pompei e Ercolano. Solo che lì la morte è un deserto. Senza materia. È energia. È l’atomo che si spacca e ti sussurra da dentro il de profundis. È per questo che c’è il desiderio di scoprire cosa si nasconde al di là dell’ultimo orizzonte. C’è voglia di cielo, di spazio e di infinito. Per dimenticare la terra. O forse ancora una volta c’è solo l’ossessione di conquistare il cielo per spartirsi la terra. È quello per cui si affannano americani e sovietici. Chi sarà il primo? Chi sarà il più veloce a superare la frontiera? Non è solo prestigio. È potere. È per questo che ci mettono soldi, cervelli, spie e tecnologia per vincere questa sfida. La prima è un cane, la povera Laika condannata ad abbaiare al di là della luna. Poi un russo. Yuri Gagarin, il cosmonauta. Eppure sarà un americano a incarnare Astolfo, con quel piccolo passo per l’uomo, ma un grande balzo per l’umanità. Gli italiani. Cosa c’entrano loro in questa storia? Ecco, è da qui che parte Il lancio perfetto (Mondadori, pagg. 280, copertina lancio perfettoeuro 17,50). Francesco Pinto ama certi personaggi dimenticati. Non gente qualsiasi. Non eroi da palcoscenico. È una strana schiatta di cani sciolti, con un senso del dovere antico, un po’ picari e un po’ donchisciotteschi. Come questi qui che si sono messi in testa di partecipare anche loro alla corsa. No, non per potere. Non per fare da sentinelle o da cecchini al mondo. Per buttare un occhio oltre la siepe. Per orgoglio. Per scienza. Per far incazzare i francesi. Per dire agli altri: ci siamo anche noi. Per devozione verso Giuda Taddeo, l’apostolo delle imprese impossibili. Solo che lo fanno arrangiadosi, senza soldi, incrociando le dita, dicendo che in qualche modo si farà, faticando più degli altri, affidandosi al talento, all’intuizione, alla professionalità. E il bello è che ci riescono. Gli italiani manderanno un satellite nello spazio, in scia dei due imperi, dopo sovietici e americani. Con un colpo solo, o ci riesci o ti ridono dietro. Con un lancio perfetto.Questo satellite gira intorno alle vite dei personaggi come la pallina da baseball che De Lillo fa passare di mano in mano in Underworld per narrare la storia americana. Pinto racconta tipi italiani che vanno controcorrente. Anomalie. Come ha fatto con La strada dritta, la storia di quella autostrada impossibile che taglia le montagne dell’Appennino, quella linea che va da Milano a Napoli, a cercare il sole. È l’arteria che mescola il Sud e il Nord. Su quella strada c’è disegnato il futuro. Quella masnada di ingegneri civli, carpentieri, minatori, manovali fa qualcosa che stupisce perfino gli americani. Bucano, spostano, valicano, ridisegnano un Paese. La prima pietra, messa lì quando neppure sapevano dove andavano a parare, è del maggio 1956. Otto anni dopo, in anticipo sui tempi, 755 chilometri di asfalto, 113 ponti e viadotti, 572 cavalca­via e 38 gallerie. Gli eroi del «lancio perfetto» sono della stessa razza. Luigi Broglio sotto la pelle porta una divisa da colonnello dell’aeuronautica, ma è un alto papavero atipico. È il preside della facoltà di ingegneria alla Sapienza di Roma. È lui l’architetto del lancio. È lui che incarta gli americani per ottenere il razzo. È lui che incanta Mattei e lo convince a donare una piattaforma petrolifera malandata come rampa di lancio. Il professor Amaldi è uno dei ragazzi di via Panisperna. Dice no a Fermi che lo vuole in America. Dice no perché non è un uomo da fuga e tra i missili e i carretti sceglie i carretti. Amaldi come il Puck shakespiriano tesse la trama di questo sogno di una notte di mezza estate. Ma c’è un personaggio che più di tutti non si può dimenticare. È Paolo Giuliani e in questi tempi di crisi è, dovrebbe essere, un simbolo. Ha 23 anni e i capelli arruffati. Broglio lo manda a studiare a Brooklyn i segreti dell’aerodinamica. Giuliani è un genio dei numeri. La Nasa gli offre la luna, lui sceglie l’Italia. «Sono in America grazie al mio professore e ho promesso di tornare. Non posso tradirlo». Gli yankee non capiscono. Ed è strano. È in fondo il senso del loro sport nazionale. Vai, lancia, corri e torna a casa madre. È proprio come il baseball. (di Vittorio Macioce – da «Il Giornale» del 21 giugno 2014)

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