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Come nasce un Impero…

“Ricordatevi di Alamo!” E, in effetti, nonostante siano passati quasi due secoli dal 21 aprile 1836, è abbastanza difficile dimenticarsi di quella battaglia, diventata uno dei miti fondanti del Nuovo Mondo. L’eroica resistenza dei 182 combattenti per l’indipendenza del Texas contro i soldati del Generale Santa Anna, glorificata dalla stampa dell’epoca e immortalata dalle successive versioni cinematografiche, tra le quali giganteggia quella con il mitico John Wayne nei panni di Davy Crockett, è la cartina di tornasole dell’efficacia della propaganda, che sembra vincere, sempre e inevitabilmente, sulla realtà dei fatti. La simpatia che tutti proviamo istintivamente per ribelli come Davy Crockett, Travis e Jim Bowie che si fanno massacrare fino all’ultimo uomo dalle truppe messicane – quasi la stessa antipatica soldataglia contro cui si batterà anche Zorro, il gentiluomo mascherato – ci fa dimenticare,

la copertina del volume di Peroncini che racconta i veri retroscena - emersi solo negli anni Trenta - dell'ingresso degli Stati Uniti nella Prima Guerra mondiale
la copertina del volume di Peroncini che racconta i veri retroscena – emersi solo negli anni Trenta – dell’ingresso degli Stati Uniti nella Prima Guerra mondiale

o meglio, ignorare, la storia vera di quelle vicende. I gringos asserragliati tra le rovine dell’antica missione, luogo di culto irragionevolmente trasformato nella ridotta di un pugno di aspiranti suicidi, non erano degli eroi romantici che si battevano per la loro terra, bensì degli immigrati clandestini che, da ospiti graditi e benvenuti, si erano trasformati in arroganti padroni di casa; mentre il Generale Antonio Lopez de Santa Anna (1794 – 1876), più che uno spietato precursore di Himmler, era un colto e determinato comandante militare e un abile politico, più volte eletto Presidente del Messico, a cui si deve, tra l’altro, l’abolizione della schiavitù nella repubblica centroamericana.

Ma, come del resto ci dimostrano anche i film di James Bond e con Bruce Willis – per non parlare di quelli su Capitan America – l’Impero del Bene veglia su di noi, e controlla, con parole, opere e soprattutto omissioni, che nessuno osi mai mettere in dubbio la celebrazione dei valori fondativi degli Stati Uniti; tutti sanno (devono sapere), che i Buoni sono sempre attenti alla difesa dei più deboli e pronti a distruggere il cattivo di turno, esattamente come insegnano le schiere di super-eroi che, dai fumetti, hanno invaso gli schermi cinematografici per dichiarare guerra totale al nemico, trasformato in un alieno, da eliminare senza pietà, perché di altra e irriducibile genia. Peccato che, nonostante le premesse e le promesse, la Storia degli Stati Uniti sia un crescendo inarrestabile di intrusioni nello spazio altrui non tanto – o non solo – in nome della difesa degli immortali principi sanciti dalla Dichiarazione di Indipendenza, quanto in adempimento alle richieste di un potente e invincibile apparato economico, predatore di quella sovranità popolare che, in democrazia, dovrebbe essere la principale, se non l’unica, volontà legittima rispettata e difesa dalla politica. Una formidabile e scorrevolissima ricostruzione di come la politica estera degli Stati Uniti sia non solo condizionata, ma addirittura plasmata e guidata da un “complesso militare-industriale” che è anche, quando non soprattutto, parlamentare, ci viene offerta da un saggio recentemente pubblicato da Mursia, La nascita dell’Impero Americano. 1934-1936: la Commissione Nye e l’intreccio industriale, militare e politico che ha governato il mondo, (pagg. 700, € 25) di Gianfranco Peroncini, giornalista e scrittore, che ha avuto la pazienza di esaminare una mole sterminata di documenti e la costanza di cercare – e trovare – un editore disposto a pubblicare un lavoro così originale e controcorrente. Oggi poco conosciuta ai più, la Commissione Nye, ufficialmente chiamata “Special Committee on Investigation of the Munitions Industry” è stata una commissione senatoriale di inchiesta costituita il 12 aprile 1934 grazie all’insistenza del Senatore Gerald Nye, un politicRepubblicano eletto in Nord Dakota, deciso ad approfondire le ragioni che avevano portato gli Stati Uniti a entrare nella Prima Guerra Mondiale, ragioni che, soprattutto dopo la crisi del 1929, non sembravano più quelle addotte ufficialmente.

Liquidate dall’establishment come voci, o pettegolezzi da giornalismo scandalistico, diventavano, infatti, sempre più diffuse e popolari le ricostruzioni della discesa in campo degli USA conto l’Europa per motivazioni tutt’altro che ideali, legate ai fortissimi debiti che il Regno Unito aveva contratto con i banchieri statunitensi, e che una vittoria degli Imperi Centrali avrebbe per sempre mandato in fumo. Composta da sette membri, di cui quattro eletti tra le file del Partito Democratico, l’organismo senatoriale, dal settembre 1934 al febbraio 1936, convocò più di 200 testimoni e condusse quasi cento udienze che vertevano su quattro temi: l’industria delle munizioni, i profitti di guerra, i contratti governativi a favore dell’industria della marina militare Usa e il contesto storico che aveva portato all’entrata in guerra degli Stati Uniti. Nonostante la grande stampa fosse, ovviamente, scettica sulla necessità di sprecare denaro pubblico per inseguire voci che i suoi editori ritenevano fantasiose, nel Paese cresceva il disincanto verso la purezza d’intenti dei politici e aumentava la mobilitazione delle coscienze, sempre meno disposte a tollerare altre sconsiderate avventure belliche oltreoceano. Quando il “New York Times, il 29 aprile 1934 mostrava tutte le sue perplessità sulla tesi che i “mercanti di armi” fossero responsabili di tutti i conflitti del mondo, accusando “il militarismo giapponese e gli elementi fascisti di Tokyo”, lo scoppio della guerra del Chaco tra Bolivia e Paraguay, nazioni che si erano rifornite di armamenti made in USA, riproponeva la stretta attualità di un embargo congressuale sulla vendita degli armamenti alle nazioni belligeranti, mentre l’analisi delle cause profonde della discesa in campo degli USA nella Prima guerra mondiale, nel 1917, diventava una difesa preventiva contro qualsiasi velleità guerrafondaia che potesse, eventualmente, coinvolgere il presidente Franklin Delano Roosevelt (1882 – 1945) in un’altra sconsiderata avventura bellicista fortemente avversata dalla maggioranza dei cittadini statunitensi. Un timore non infondato visto quello che sarebbe accaduto nell’autunno del 1941 quando gli Stati Uniti, a maggioranza neutralista, si ritrovarono catapultati nella Seconda guerra mondiale col compito di salvare il mondo.

La nascita dell’Impero Americano segue con attenzione l’origine e gli sviluppi della Commissione d’inchiesta, davanti alla quale sfilano banchieri e mercanti d’armi, politici e operatori di borsa. Intanto, il 3 gennaio 1936, Roosevelt trasmetteva, per la prima volta nella storia, in diretta radiofonica su tutto il territorio nazionale, il discorso sullo Stato dell’Unione. Il suo messaggio al Congresso, oltre a sottolineare la politica di neutralità del Governo, ribadiva l’intenzione dell’amministrazione di restare fuori da guerre che sembravano sempre più probabili, ma a cui neppure gli armamenti americani avrebbero più fornito strumenti né giocato un ruolo decisivo. Esattamente come un suo predecessore, il Presidente Woodrow Wilson (1856 – 1924), il 19 agosto 1914, aveva fatto appello agli statunitensi contro la guerra, dato che “ogni uomo che abbia a cuore il destino dell’America deve agire e parlare nel rispetto della neutralità”, per poi smentirsi pochi anni dopo, così, il Presidente del New Deal si sarebbe contraddetto non appena fosse stato disponibile un qualsiasi pretesto, e, soprattutto, quando fosse stata confermata la sua elezione nel 1940, con una campagna elettorale basata sulla promessa, anzi, sul giuramento che gli USA non avrebbero mai preso parte a un’altra guerra europea. Proprio come Wilson era stato rieletto nel 1916 sull’onda dello slogan “he kept us out of war” (cioè «ci ha tenuto fuori dalla guerra»), Roosevelt bissò il mandato presidenziale straparlando di pace e neutralità. Già, perché, come Peroncini ben racconta nella lunga e preziosa introduzione, quella degli Stati Uniti è anche una lunga storia di ipocrisie, spesso letali. “Il primo a farti le condoglianze al mio funerale sarà chi mi ha assassinato”, dice al figlio Michael l’immortale Marlon Brando nel Padrino, capolavoro cinematografico che spiega, meglio di tanti documentari, i meccanismi del potere moderno, ingranaggi che Francis Ford Coppola esplorerà efficacemente anche qualche anno dopo, con Apocalypse Now, un’altra spietata e anticonformista denuncia dell’ipocrisia a stelle e strisce. Il cinema, “l’arma più forte”, è già diventato uno strumento di propaganda, quando non di narrazione della realtà e formazione o descrizione della coscienza civile di un popolo; del resto, ci sarà una ragione se in USA hanno John Wayne che mitizza Davy Crockett, e in Italia abbiamo Alberto Sordi, inarrivabile interprete del peggior senso comune italico, che ha immortalato in decine di interpretazioni, a partire dall’eroismo straccione della “Grande Guerra” al disincanto di “Tutti a casa”, dal servilismo di “Un americano a Roma” fino al cinico e attualissimo – e sottovalutato- “Fin che c’è guerra c’è speranza”.

Oggi, è opinione comune identificare la forza della propaganda con il mefistofelico Dottor Goebbels, onnipotente artefice della tecnica della “grande bugia”, dimenticando che, ben prima della proselitismo pervasivo dei regimi totalitari, era stata l’America del Nord a inventare una nuova e sconcertante tecnica propagandistica, proprio negli anni 1917/18, con il cosiddetto “Creel Committee”, un Comitato per l’informazione pubblica che ha preso il nome dal suo presidente, il giornalista progressista George Creel. I suoi attivisti, detti anche “uomini dei quattro minuti” per i brevi discorsi provocatori che riuscivano a tenere in ogni luogo pubblico, ricoprirono letteralmente il paese di volantini, opuscoli e manifesti a favore dell’intervento a fianco della Triplice Intesa, scatenando una campagna di odio contro gli “Unni” e stimolando i fervori nazionalisti fino alla frenesia. La loro fatica non sarebbe stata vana: non appena entrati in guerra, gli USA sembrano dimenticare il primo, sacro emendamento della Costituzione, quello che garantisce la libertà di parola e di stampa, e approvano la legge sullo spionaggio. L’Espionage Act del 1917 è poi seguito dal Sedition Act, approvato il 16 maggio 1918, leggi che, come l’Anti Terrosim Act del 1991 e il famigerato Patriot Act approvato dopo l’11 settembre 2001, danno poteri straordinari e praticamente illimitati al Dipartimento di Giustizia, che può intercettare, perquisire, arrestare e deportare chiunque, in spregio a quell’habeas corpus che fu meritato vanto della civiltà giuridica anglosassone. Con queste leggi, vengono definitivamente silenziate tutte le voci contrarie alla guerra e, a farne le spese, come accade spesso, sono più facilmente gli avversari politici invece che i nemici della nazione. Ad esempio, quando il leader sindacale Eugene V.Debs, già candidato più volte alla presidenza per il partito socialista americano, disse di non essere entusiasta all’idea di far gassare dall’iprite tedesca alcune migliaia di ragazzi statunitensi sui campi di battaglia delle Fiandre, fu condannato a 10 anni di carcere, condanna che il Presidente Wilson rifiutò di annullare con il suo potere di grazia. O, come accadde a un produttore cinematografico, Robert Goldstein, che si vide condannato anche lui a 10 anni di galera e a una salatissima multa di cinquemila dollari per il film The Spirit of ’76, una pellicola dedicata alla guerra d’indipendenza americana, che descriveva con eccessivo realismo il massacro di Cherry Village, dove le Giubbe Rosse britanniche trucidarono donne e bambini con l’aiuto dei feroci alleati irochesi. Il film fu proiettato per la prima volta un mese dopo la dichiarazione di guerra contro la Germania, le scene dell’eccidio furono considerate antipatriottiche e il produttore processato. Dopo la prigione, quasi ridotto sul lastrico, Goldstein – che era ebreo – riparò in Germania, dove l’industria cinematografica sembrava offrire buone prospettive, ma, purtroppo, i tempi erano sbagliati, e, con la nomina di Hitler a Cancelliere, il povero Goldstein venne espulso, e rimandato negli USA.

Mentre Goldstein sperimentava le avversità del destino, nel frattempo, il complesso militar-industriale-politico statunitense si stava rimettendo in moto, infischiandosene degli imbarazzanti retroscena che la Commissione Nye aveva cominciato a svelare sui veri interessi che avevano determinato l’entrata in guerra degli USA nel 1917. Un dato solo, tra i tanti forniti dal libro di Peroncini, chiarisce i termini della questione: «Nel corso del 1916 il valore totale delle esportazioni statunitensi di armi e munizioni agli Alleati raggiunse l’incredibile totale di un miliardo e 290 milioni di dollari». E, come recita il vecchio adagio: «Se devi mille dollari alla banca, la banca ti ha in pugno, ma se devi alla banca un miliardo di dollari, sei tu ad avere in pugno la banca»: chi decide il gioco è chi ha il mazzo, ovvero il potere finanziario. Una sconfitta delle forze armate britanniche non poteva nemmeno essere presa in considerazione da Wall Street, che sarebbe stata la vera vittima non collaterale di una eventuale vittoria tedesca. Questi fatti sono via via divulgati e confermati dai risultati del “Nye Committee” (questo il nome della Commissione in inglese), i cui membri diventarono sempre più convinti (e siamo nella prima metà degli anni Trenta…) che le leve del potere finanziario in mano ai banchieri statunitensi potevano ancora muovere a proprio piacimento tanto il governo di Washington quanto quello di Londra, come avevano fatto in passato, trasformando quello che era un deficit nel 1914 di 3,2 miliardi di dollari in un surplus di 3,6 miliardi di dollari dopo la guerra. Ma le brutte scoperte non si fermarono agli aspetti economici, toccando quelli morali, spesso più importanti per la popolazione americana, fondamentalmente puritana.

Un altro luogo comune, riguardante le presunte violazioni del diritto internazionale della Germania nella Prima guerra mondiale, viene ridotto in frantumi: la violazione del diritto internazionale operata dei sottomarini tedeschi che avevano dichiarato il Canale della Manica zona bellica era una conseguenza di una violazione ben più grave, compiuta dal Regno Unito quando, mesi prima, aveva disseminato di mine il Mare del Nord e una vasta fetta dell’Oceano Atlantico, per colpire i convogli navali, carichi di rifornimenti, diretti in Germania: quelle navi mercantili erano esposte a un pericolo ben più grave dei sottomarini, perché gli ordigni galleggianti colpiscono alla cieca. Ma la ragione politica ha la meglio sulle motivazioni ideali, e l’indagine guidata dal Senatore Nye venne bruscamente interrotta quando il Senato decise di revocare ogni ulteriore finanziamento alla Commissione dopo che erano stati prodotti inoppugnabili documenti, provenienti dall’archivio del Dipartimento di Stato, che accusavano di spergiuro il presidente Wilson e il segretario di Stato Lansing. La faccenda era diventata troppo grossa, e la lesa maestà del defunto presidente scatenò un attacco letale che decretò lo scioglimento della Commissione giusto in tempo per confondere nuovamente le acque prima di un’altra tragica e sanguinosa avventura. “La guerra che avrebbe chiuso l’epoca delle guerre” è lo slogan che accompagna molte operazioni militari a stelle e strisce, spesso scatenate da vere e proprie false flag, cioè delle “provocazioni”, delle operazioni studiate a tavolino per creare un “casus belli” e che sembrano essere state molto frequenti nella storia degli USA, come documenta Peroncini.

Ci sono state molte reazioni ironiche, quando l’ex ambasciatore russo Felix Stanevskiy, commentando sul “Foglio” dello scorso 18 marzo le minacce alla pace legate alla situazione in Ucraina, ha ricordato che “in meno di un quarto di secolo gli stati della Nato e dell’Unione Europea hanno scatenato otto guerre. Tre guerre particolarmente devastanti nelle ex-Jugoslavia, due incursioni in Iraq, di cui l’ultima con la scusa di un espediente inventato di sana pianta. La guerra in Afghanistan avrebbe una spiegazione se l’Occidente non incoraggiasse gli estremisti islamici, che, insieme con l’Europa, hanno distrutto anche la Libia e favorito lo sparpagliarsi di bande armate dalla Repubblica Centrafricana a tutto il Medio oriente. E se non fosse stato per Putin, avremmo oggi la guerra in Siria e domani in Iran. Ogni volta l’Occidente trova un casus belli, e nel caso lo inventa, come è successo quando ha mostrato dalla tribuna dell’ONU una provetta piena di innocua polvere bianca spacciandola per una micidiale arma chimica. Quale altro stato fa guerre, oltre alle democrazie occidentali? Nessuno. Sono tutte nell’album di famiglia dell’occidente». Gli anniversari, soprattutto quelli che segnano passaggi decisivi come il secolo trascorso dalla Prima guerra mondiale, non dovrebbero ridursi a ipocrite o retoriche celebrazioni di vittorie o conquiste, come purtroppo siamo soliti fare. Sarebbe invece opportuno che le ricorrenze diventassero occasioni di analisi approfondite dei fatti, per fare un bilancio sincero, al netto delle roboanti dichiarazioni propagandistiche di tutti i contendenti. Il saggio di Peroncini è un prezioso contributo alla ricostruzione della verità, distrutta da cumuli di macerie, frutto di anni di incessanti bombardamenti, veri e mediatici, che hanno trasformato la verità in menzogne, ed eletto ad angeli custodi i criminali.

Luca Gallesi (da “Storia In Rete” n. 103, maggio 2014)

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